mercoledì 19 dicembre 2012

Fine del mondo overbooking


Amore, con questo vestito sei la fine del mondo.

Quest’anno a Norcia si è svolta un’insolita gara fra salumieri valida per il guinness dei primati: il taglio della fetta di prosciutto più fine del mondo.

Secondo un sondaggio americano svolto alla fine degli anni ’90, l’attrice Audrey Hepburn è stata giudicata la donna più fine del mondo di tutto il XX secolo.

L’allenatore di calcio Emiliano Mondonico, detto “il Mondo”, nell’ultimo anno ha sconfitto per ben due volte la malattia. Molti tifosi e addetti ai lavori hanno temuto per la fine del Mondo.

Dicono che il mondo abbia un’anima di nome Gaia. Ma nessuno è a conoscenza dei suoi piani. Chi sa qual è il fine del mondo?

Il miele di castagno con questo formaggio stagionato, è la fine del mondo, te l’assicuro.

sabato 17 novembre 2012

Polpette di speranza


Roma, quartiere Testaccio. Alle mie spalle il teatro Vittoria. Qui seduto su di una panchina, consumo la mia cena alle ore 18. Presto, molto presto, ma oggi è un giorno particolare, stasera sono in scena, qui a due passi, al Teatro Antigone. La cena prevede quattro polpette al sugo, una leccornia che mi riporta indietro nel tempo. Francesca, me le prepara quando vuole coccolarmi, sa che le adoro. Le faceva mia nonna paterna, quella napoletana, la domenica a pranzo. L’odore si è impresso fin da bambino e non l’ho più dimenticato. Con la sua morte, insieme a lei se n’è andata una sapienza da donna di altri tempi e ahinoi anche le sue polpette. O almeno come le preparava lei, con la mollica di pane nell’impasto. All’epoca dell’arrivo a Torino della famiglia di mio padre alla fine degli anni sessanta, l’aggiunta della mollica era un modo per allungare il più possibile la carne che ci si poteva permettere di comprare. La famiglia numerosa, sei figli ed una moglie casalinga. Quelli in età da lavoro tutti diligentemente assunti in qualche fabbrica od officina. Un classico della Torino e Milano di quegli anni. Così la domenica, il mastodontico lavoro per mia nonna di dover pensare al pranzo, la cena e alle pietanziere del lunedì per i lavoratori. Mio padre mi ha raccontato che il massimo del piacere consisteva nel ritrovarsi il lunedì con i maccheroni al ragù nella vaschetta d’acciaio grande e due polpette con un po’ di patate fritte mischiate con il sugo in quella più piccola, per il secondo. Come dargli torto. Ricordo bene nella mia piccola parentesi da operaio, a cui mi sono ribellato, il  gusto della sorpresa nel rito di aprire il contenitore del pranzo. Spesso, unica fonte di conforto per l’intero arco della giornata. Ebbene, quelle polpette lì della nonna, quelle non ci sono più. Trent’anni di matrimonio infatti, non sono bastati per convincere mia madre ad usare la mollica nell’impasto. Lei le fa di sola carne, dice che sono migliori. Non è vero, non è la stessa cosa, ma non c’è stato verso. Così, niente più mollica e magica consistenza. Ma non è per via delle polpette che ho provato un sussulto di speranza. Speranza vera, da farmi dimenticare le polpette (anche se devo dire che Francesca la mollica la mette, ce l’ha già nel dna,  per mia fortuna). A venti metri da dove sono seduto, diversi bambini dai sei ai dieci anni stanno giocando a pallone. Il loro vociare da pulcini è incessante. Ad un tratto, in un momento in cui lo sguardo è rivolto verso di loro, uno dei più piccoli viene colpito in pieno volto da una pallonata. Nonostante abbia fatto in tempo a ripararsi un poco con un braccio, viene abbattuto come un birillo, in modo piuttosto comico. Succede però l’inatteso. Invece di scattare sfottò o sentire risate divertite, tutti si fermano, i più grandi in testa,  gli si fanno intorno per rimetterlo in piedi ed assicurarsi delle sue condizioni. Qualcuno scruta il viso, altri lo abbracciano, pacche sulle spalle. Altri ancora si prodigano per rincuorarlo e farlo sorridere. Senza nessuna fretta, riprende la partita. Nessun cinismo, aiuto dai più grandi, affetto, amore. Sono rimasto lì con la forchetta in mano, come un pezzo di baccalà. Ho fatto uno sforzo per riportare la memoria alle mie partite di pallone in cortile, e mi è venuto in mente di una volta che ricevetti io una violenta pallonata in pancia da farmi piangere e trattenni le lacrime per non essere ulteriormente deriso, o un’altra in cui subii le botte e le angherie dei più grandi, mentre con il mio migliore amico venivamo gonfiati come zampogne. La famosa legge della strada.
Un’ora prima intanto alla fermata del bus, due adulti di più di quarant’anni si erano appena azzuffati con le mani al collo perché uno aveva ostruito la discesa all’altro. Da parte dei passeggeri tanta eccitazione tutto intorno, fra chi voleva sapere chi avrebbe voluto la meglio, conducente compreso che si godeva la scena.
Alla fine, vedendo questi bambini, ho sorriso e mentre ritiravo le mie cose ho pensato che c’è speranza, l’essere umano ha ancora speranza. Questi, mi sono detto, sono diversi, questi rimettono le cose a posto. I bambini della nuova specie stanno arrivando a migliaia. 

mercoledì 14 novembre 2012

Rivelazioni 2


La cerbottana è un’arma dai facili costumi.
La gravidanza è un ballo per donne incinta.
Il calcestruzzo si prepara mettendo la testa sotto la sabbia.
La carta velina non fa provini.
I lampioni sono frutti di bosco che si vedono anche di notte.
Una cicogna non si è mai sognata di dire ai propri figli che sono stati portati dagli uomini.
Il violoncello è un incrocio fra una viola e il limoncello.
I contrabbassi sono il sindacato delle persone alte.
Il bucato è un insieme di panni tossicodipendente da ammorbidente.
Nella raccolta differenziata, la carta-vetro dove si butta?
Un disco in vinile non incolla.
Un libro giallo ha problemi di fegato.
Una riflessione, è una flessione fatta più volte.
In mare, uno pesce di casa.
Un flauto traverso non va giù al musicista.
A Riace, ci sono almeno un paio di facce di bronzo.
Un maglione è un grande pugno.
Il salmone è un pezzo della Bibbia particolarmente lungo.
Un fungo anche se non si annoia fa la muffa, non si sa mai se si sta divertendo.
Un marchingegno, è un cervellone di Ancona.
Un gabbiano è un culo in prigione.
L’orchidea è la divinità femminilità degli orchi.
L’orcodio, no.
Un pupazzo è un peluche folle.
Un profilattico è un attico visto di profilo.
L’intonaco è un monaco intonato.
Il surrealismo è un movimento che ha portato lo spirito Dalì…a qui.
Un calabrese migrato a torino ama l’anduja quanto il Gianduja.
Un coccolone è un infarto per mancanza di coccole.

martedì 30 ottobre 2012

Gli alieni


“Ma tu l’avresti detto che le cose stanno così?” si domandò poco prima di prendere sonno, mentre ricordava la conversazione con l’amico.
“Quindi se ho capito bene, esisterebbe qualcuno in grado di abbracciarci contemporaneamente tutti insieme con lo sguardo?”
“Sì.”
“E questo qualcuno se lo desidera ci fa deviare il cammino, ci regala del cibo, ci annienta il Regno con un gesto o ci fa prosperare in pace, a suo piacimento?”
“Sì.”
“Non ci credo! Noi siamo frutto di millenni di evoluzione. Siamo diventati così efficienti che nessuno è pari a noi. I nostri cacciatori poi, hanno imparato ad uccidere prede ben più forti e grandi!
“Eppure ti garantisco che…”
“Sciocchezze! Mi chiedo come si faccia solo a pensarle certe cose. Dalla notte dei tempi,  siamo sempre stati qui, ci siamo organizzati in modo via via migliore, i nostri risultati sono stati strabilianti e mai nel Regno abbiamo raggiunto questo numero.”
“Tu sei libero di non credermi, ma io sono stato rapito da uno di loro. Un giorno mi sono ritrovato sollevato nel cielo, è un miracolo che non sia morto dallo spavento. Ho sentito come un grande occhio scrutarmi da vicino e poi ancora, un dolore lancinante!” Così dicendo mostrò la ferita su un fianco.
E proseguì :”Sono stato fortunato, questa è la verità. Ci hanno preso in cinque e sono l’unico che è qui a poterlo raccontare. Gli altri sono stati fatti a pezzi uno per volta davanti ai miei occhi. E’ stato terribile! Non so perché mi abbiano risparmiato, ho trascorso diverso tempo con loro e alla fine prima di lasciarmi libero mi hanno dato addirittura del cibo. Ed è lì che ho visto!”
“Visto cosa?”
“Ho visto tutto il Regno dall’alto! Era grande come un granello di sabbia. Un solo gesto e non resterebbe nulla di noi. E poi vedessi quante cose ci sono tutto intorno! Forme, colori, un Regno un miliardo di volte più grande!”
“Non voglio sentire una parola di più. Noi siamo i più evoluti, se ci fosse dell’altro, l’avremo già scoperto, non trovi? Buonanotte amico mio, s’è fatto tardi.”
Così dicendo si ritirò nella sua cella.
La notte era ormai calata nel bosco e a parte le sentinelle di guardia, nel formicaio dormivano tutti.

giovedì 11 ottobre 2012

Stelle in polvere

Il matrimonio,
sarà mica la condizione naturale dell’uomo?
E’ una scelta, mi dicono.
Dentro o fuori.
Semplice, no?
No, non è per niente semplice.
L'ipocrisia del matrimonio mi fa schifo.
Un acquario da salotto,
spacciato per oceano.
La vita è un fiume fresco,
innocente e terribile.
L'amore non è un rapporto esclusivo,
ma uno stato dell'essere:
o sei nell'amore o non ci sei.
Di amore
sono state fatte le pietre, le foglie e i sogni.
Tutto.
Quando ci sei,
quattro pareti, un divano, la TV ed un essere umano
non sono dimensioni adeguate
alla potenza dell'amore.
Viene voglia di spogliarsi nudo
come Francesco,
andare in giro per le strade
a baciare nonne,
bambini
ricchioni
e puttane, 
che senza ipocrisia ti guardano negli occhi
con più dignità,
di tante madame benpensanti
ben vestite,
ben tutto,
che si vedono sfilare altezzose
come finte pietre preziose.


Polvere di stelle

Il tuo odore,
il tuo sapore,
il mio dolore.
Mai potrò averti.
Incomprensibile.
Senza una parte di me,
per sempre.
Ciò che è rimasto
l’ho lanciato in cielo.
Cadendo,
mi sono fatto il solletico.

Ho amato
senza scopo.
Non c'è tristezza,
non c'è vuoto.
Pioggia di luce,
l'amore mi ha redento
con un soffio.

sabato 29 settembre 2012

Deliri

A questo punto dovrei sentirmi in colpa. Perché? Sono solo una tazza. Si, hai capito bene. Sono solo una tazza. Hai presente quei contenitori concavi dove ti ci bevi il tè o quel diavolo che ti pare? A volte ti ci affezioni e negli anni mi porti con te ovunque vada. E guai se vado in frantumi. Perché mai dovrei sentirmi in colpa, allora? Perché se non mi ci metti niente dentro, non servo. Giaccio riversa in un mobile, o sospesa in uno scolapiatti. Ho bisogno di liquido caldo per prendere vita. Altrimenti non esisto. Che colpa ne ho in fin dei conti, è vero. Eppure mi sento in colpa lo stesso, perché non sono sempre fra le mani di qualcuno a farmi leccare i bordi.
Chi ha parlato? Chi è che parla?

Sono solo in casa. Sento le voci. Lo sapevo. Prima o poi sarebbe successo. A tentare di corteggiare il Genio, rischi di beccarti sua sorella Follia, che ti credi. Chiamare la neuro. Chiamate un’ambulanza. Camicia di forza per tazze. Taglia? Non lo so. Però una manica sola. Quale? Non facciamo domande idiote. Quella sinistra perdio, sono mancino. Non si vede che mentre scrivo sbavo l’inchiostro? No? Non si vede? Peccato. Io ho la mano sinistra tutta sporca di inchiostro. Nero. Scrivo solo in nero sul pc. Consumo una cartuccia al mese di word. A volte mi piace riempire la bocca di inchiostro e sputarlo sul foglio. Poi aspetto che si asciughi. Dopo, comincia la febbre. Prendo il bianco e comincio, comincio a pulire. Prima i margini, poi i bordi. Poi metto il pc in controluce e aspetto. Aspetto che si intraveda l’immagine di tutte le lettere. A quel punto devo salvarlo, devo salvare il testo. Corro a rotta di collo fra una lettera e l’altra per liberarle. Lì c’è una q, lì una u là una i e via così.  Bianco di lì, bianco di là, è una lotta contro il tempo per liberar parole. Presto, prima che l’immagine svanisca. Non so neanche cosa c’è scritto, non ho tempo di leggere: lo faccio mentre lo faccio, quello che faccio. Se mi fermo lo perdo. Non è mica farina del mio sacco questa, no, no. Me l’ha insegnato Michelangelo. Lui prendeva i pezzi di marmo e poi liberava il Mosè che c’era dentro, tanto per dirne una.
L’avete mai visto il Mosè di Michelangelo? Ha due cornini sulla testa che gli donano una meraviglia. Ci ha fracassato il Vitello d’Oro quando è sceso con le tavole, aveva le mani occupate d’altro canto. Che bel tipetto che era. Ecco, è così che si fa arte. Non c’è mica niente da trovare. C’è solo da togliere, liberare, ciò che ingombra. Via, via.

Si però io mi sento in colpa lo stesso. Leccami! Leccami almeno un po’.

Va bene, adesso metto a scaldare sul fuoco un po’ d’acqua e ti riempio di malva, ok? E ti do tanti bacini. No, no, niente microonde, niente microonde, non sono mica un assassino! Io l’acqua la rispetto. Non l’ammazzo mica, non bevo cadaveri di gocce. La scaldo col fuoco. Perché col fuoco si scalda l’acqua, col fuoco non con le onde.

Ma l’orizzonte? Hai guardato l’orizzonte? Ma cosa vuoi che ci sia all’orizzonte?

domenica 23 settembre 2012

Amarcord Vidal


Un cavallo bianco, libero, al galoppo, corre sul bagnasciuga come la pubblicità di un bagnoschiuma di tanti anni fa, sollevando schizzi d'acqua che sembravano raggiungerti a tavola davanti la tv.  Un tempo lontano, in cui ci si lavava ancora con il sapone ed io bambino, per i capelli usavo lo shampoo che non bruciava gli occhi, ma non era vero perché provavo a tenerli aperti e bruciavano eccome. E prima ancora, più indietro nel tempo, chi si occupava di me? Le dita di mia madre alla ricerca di pepite preziose nelle orecchie di un monello. Orecchie che diventavano rosso fuoco. Inutile protestare, era un'operazione sadica e più mi ribellavo più ci dava dentro. Le piastrelle del bagno color giallo ocra, l’asse del water nero, in plastica, i rubinetti dell’acqua calda e dell’acqua fredda divisi, segnati di rosso e di blu, che ricordo ancora lo stupore quando adolescente ho visto il primo miscelatore. Sembrava venuto dal futuro, un’invenzione  per persone ricche. Oggi che ce l’hanno tutti e che a pensarci bene, la mia di famiglia ricca non lo era. A me però sembrava un oggetto così raffinato. Basta scottarsi, basta gelarsi, dover aspettare di mischiare le acque nel lavabo. Il tiepido in diretta.
È stato un bene, è stato un male? “Ti vomiterò dalla mia bocca, poiché non sei né freddo, né caldo.” Mi sembra che una sacra scrittura dica qualcosa del genere. Come a lasciare intendere che non ci sia gradimento per i tiepidi. Ci siamo un pò intiepiditi? Beh, sì, al massimo si può provare a gelarsi o scottarsi di tanto in tanto. Non di più. Troppa inerzia da vincere. Si è lenti dalle parti della pancia, l’ozio l’ha nascosta sotto strati di delizie che sono una croce. Non si sale. Serve altro che una dieta, ho sentito addirittura un amico mio dire di togliere ogni tornaconto dal proprio amare. Sì, proprio quello lì, il famoso amore incondizionato.  L’unica merce rimasta senza codice con le sbarre. Accettano solo più questa moneta da quelle parti. Ne ho sentito parlare, chissà che forza che deve avere. Quindi tutto il resto dei prodotti sarebbero marchiati dal cornuto. Ma allora esiste? Io conoscevo il cornuto che è in me, che è in noi. Noi che una volta avevamo anche la coda, mentre le corna, quelle, le abbiamo da sempre. Come certe zaffate di zolfo da sotto le lenzuola degne di un caprone.
Bassi istinti, alti inganni.
Se fosse vero però, cosa ci viene chiesto: togliere ogni tornaconto dal proprio amare. Le cose non stanno forse che siamo da sempre lì, a metà strada, attratti da un azzurro inarrivabile e un fango che ci reclama? A metà strada, come un bagno tiepido, né caldo, né freddo. Da augurarsi uno shock, un imprevisto. Vidal. Ecco come si chiamava la pubblicità di quel cavallo bianco che correva.  Un cavallo chiamato desiderio. 

domenica 9 settembre 2012

Strani biscotti

Sembra che abbia cambiato colore.
Cosa?
La coda.
Ti credo, a forza di morderla.
E'diventata nera.
Ma ci vedi? E' bianca e pure tutta bagnata.
Sono io che la bagno, con la saliva.
Guarda che si è appena attivato l’impianto di irrigazione del parco e ti ha lavato completamente. Sei tutto bagnato, mica solo la coda.
Hai ragione. Non me ne sono neanche accorto.
Per forza, sei così impegnato a morderla che se ti mettessero al forno in una teglia con delle patate intorno, crederesti di essere al buio in una notte accaldata.
Al forno? Senti amico, i cani non si mangiano. Al massimo si è mangiato qualche gatto ho sentito dire, in tempo di guerra.
Se è per questo allora, i cani si mordono la coda, non i gatti.
Lo so! Sono un cane.
No, che non sei un cane, sei un gatto. Non ti sei accorto neanche di questo?
Ma che dici?
Ascoltami: hai mai assaggiato i biscotti preparati con la cacca di unicorno?
No. Ma che schifo!
Dovresti provarli. Sono squisiti e pare che facciano vedere le stelle cadenti.
Non ho tempo per queste cose. Devo fare la guardia.
La guardia! Ma a cosa?
Alla coda. Mi fa impazzire ed ho paura che scappi. Così la mordo.
E funziona?
Sì, ma mi fa sempre male. È per questo che se ne vuole andare, dice che soffre.
Scusa, ma hai mai provato a lasciarla muovere?
Ma che scherzi?
Guarda che non scappa. Dovrebbe anche smettere di farti male.
Già, poi che cosa faccio tutto il tempo? Mi metto a guardare le stelle cadenti?
Ci vogliono i biscotti per quello.
Ah, è vero. Senti,...non è che ne hai mica uno o sai dove li posso trovare?

sabato 25 agosto 2012

Camminando...


Sono giunto a 1150km percorsi a piedi nella mia vita in pellegrinaggio. Cammino di Santiago, più Cammino di San Francesco d’Assisi. Ci ho preso gusto. Quest’ultimo tracciato, a dire il vero, se l’è inventato una signora unendo i santuari principali e storicamente documentati toccati da Francesco. Quello di La Verna, in Toscana, dove ricevette le stigmate, le prime dai tempi di Gesù; Fonte Colombo dove scrisse la Regola dopo 40 giorni di digiuno; il santuario di Poggio Bustone in cui Francesco vi si recò in principio con i primi sei Frati ottenendo la remissione di tutti i suoi peccati, ed ancora il Sacro Speco, dove tuttora vive un prospero castagno piantato da lui. A Gubbio invece vi si recò appena lasciata la casa paterna, ricevendo ospitalità da un ex-amico di bisbocce e cavaliere. Spoleto, il santuario di Greccio con i resti del primo presepe della storia da lui voluto una notte di Natale del 1200 e qualche cosa. E naturalmente Assisi, dove ogni cosa parla di lui, senza profanazione.
A distanza di 800 anni, una regione intera è ancora permeata dal passaggio di quell'essere umano. L’ospitalità e la semplicità genuina degli umbri sono giunte inaspettati. Nonostante il passaggio massiccio di turisti, soprattutto per quanto riguarda Gubbio ed Assisi, si respira un’atmosfera fuori dal tempo, dove si toccano con mano fede e spiritualità nelle genti come nelle cattedrali, mai esagerate negli orpelli, eppure così straripanti di bellezza, da imbarazzarsi. Lo dico io, che li scoperchierei i tetti delle chiese, per farci entrare la luce del Sole.
Poiché la messa per me si fa nel bosco, al ritmo dei bastoni di nocciolo sui sentieri, in silenzio. Camminare è una dimensione che ho scoperto essere sacra. Rallentare al tempo nostro, quello umano. A piedi. A piedi ti guardi intorno, con attenzione per il dettaglio. A piedi vibri il tuo respiro, avverti il corpo spostarsi nello spazio; mediti, sudi, copri distanze nel tempo delle tue possibilità. Gioisci di un masso comodo all’ombra di un albero, di una fontana di paese dall’acqua gelida, di un campo di girasoli che ti saluta come una legione di soldati. E tu come Marco Aurelio, alzi il bastone in segno di saluto e vittoria. A piedi, la bandana che dona refrigerio si asciuga sulla testa, la pelle scurisce, le borracce esauriscono, le vesciche bruciano. Ma quando si fa sera e raggiungi la meta, oltre la grande fatica c’è la gioia più pura, e se solo potesse, il tuo spiritello ti mollerebbe un attimo per brillare in cielo come un fuoco d’artificio. L’ho riscontrato a Santiago in centinaia di persone. Si è felici, punto e basta. Camminare per 20 o 30 km al giorno, produce gioia e più i giorni si sommano, più il processo infila un binario di trascendenza, che tu ne sia consapevole o meno. Nei primi il fisico deve abituarsi, poi marcia con regolarità, si alza senza traumi alle 5 del mattino e cammina per 8-9 ore. Ha dell’incredibile. Non c’entra la forma fisica. Ho visto atleti tornare a casa il terzo giorno per aver abusato di loro stessi e signori di 70 anni arrivare al traguardo. Pellegrinare è una prova mentale. Credo che la prossima volta, sarà Gerusalemme.

mercoledì 25 luglio 2012

Dialogo con la Morte


Cosa fai?
Vivo!
Sei sicuro?
Sicuro è morto. Io ti ho detto che vivo.
E non hai paura?
Di cosa?
Potresti morire anche tu.
Può essere, ma non ne sono sicuro.
Mi prendi in giro?
No, non mi permetterai mai. Sono solo sincero.
Sei sicuro di quello che dici?
Non sono sicuro! Sono sincero, come te lo devo dire?
Mi stai facendo perdere la pazienza. Su, vieni con me ora.
Dove?
Lo sai. Dobbiamo andare.
Sei sicura?
Certo, sono la Morte.
Ecco! Hai visto? Te l’avevo detto! Sicuro è morto!

mercoledì 30 maggio 2012

Giro di boa

Ripassare dal via e ritirare 20 banconote, come a Monopoli. Ne ho bisogno. Mica ti danno le cose che ti servono se tu non dai i pezzi di carta con le scritte e la facce sopra. Respirare, camminare, avvertire la luce del sole sulla pelle, sorridere, vedere una bella donna, un bel vestito, le braccia scoperte. La scoperta delle braccia. La pelle liscia che respira. È come uno splendido circolo virtuoso. Velenoso, ombroso, pensiero pericoloso. Cadere invece di elevarsi. Lasciarsi andare, abbandonarsi. Mi chiedo perché ogni mattina quando mi alzo, debba ricominciare sempre da capo. Chiudo gli occhi in paradiso, mi risveglio all’inferno. Di nuovo a costruire un senso, a cercare di farlo. Poi nel pomeriggio tardo me lo ricordo! Mi ricordo il senso, lo porto fino a sera e di notte, dico, dimentico tutto. Apro gli occhi al mattino e un macigno mi pesa sull’anima. È possibile morire e rinascere ogni giorno? Si, è evidente. E quindi? Niente, si accetta la faccenda. Ci sono alternative? A forza di costruire barchette di carta, prima o poi avrò una flotta pronta a scivolare sull’acqua senza temere di bagnarsi. Tutte insieme, vicine e solidali, riempiranno la brocca della felicità. La mia brocca della felicità. Intanto, ciucciati il calzino! È bello come un campo di girasoli al tramonto, d’estate. Quanti ne ho visti durante il cammino di Santiago. Immagini vive e calde ancora adesso. Ricordo una tappa, terminata in un piccolo convento raggiunto alle 9 di sera, dopo una giornata infuocata. I campi di grani mietuti, i girasoli alti e solari, voltati tutti verso la palla gialla a godersi gli ultimi raggi. Una zuppa di legumi ricchissima come premio, il calore di una tavolata di 30 persone, l’abbraccio di una pellegrina nella notte. La Pellegrina. L’abbraccio ancora oggi, anche se le fracasserei il cranio ogni tanto. Si, perché nel frattempo dormiamo ancora insieme. Capita. Siamo umani. E gli umani ogni tanto si fracassano anche i crani. Che male c’è? Scagli la prima pietra, possibilmente sbagliando la mira, chi non avrebbe voglia di strangolare il partner di tanto in tanto. Dai. Non facciamo gli ipocriti. Siamo già ipo in tante cose. Ipocondriaci, ipotecati, ipoglicemici. Ipotesi di reato: colto da ira improvvisa perse la possibilità di diventare un Santo Pellegrino. In compenso rese Santa Pellegrina Martire, la povera fanciulla. Poi, tutti a ricordare, a celebrare i martiri sui calendari. Ma che si sono martirizzati da soli? Il lavoro sporco qualcuno l’avrà fatto. All’anima di questi non ci pensa mai nessuno? Chi siamo noi per giudicare sempre? Ma così, per carità, era per dire. Non fracasso, non fracasso niente. Faccio un turno in prigione,  via, poi tiro di nuovo i dadi: in lontananza vedo già il Parco della Vittoria. Quel viola lì come mi piace.

venerdì 11 maggio 2012

Rivelazioni



Lo zippo è un accendino con la cerniera.
Un sapone è un insopportabile saccente.
Un tappeto è un giardino di tappe.
La credenza è un mobile con il pregiudizio.
Un divano è un sedere molto famoso.
Il pappagallo si nutre di pollo.
Il materasso è un fuoriclasse della Basilicata.
Un braccialetto è un giornale scritto sulle braccia.
Un braccialetto è un sacco a pelo con le maniche.
Un mazzo di chiavi non appassisce.
Un estintore è un liquidatore di dinastie.
La maniglia è un gusto che fa presa.
I polpastrelli sono dei biscotti coi tentacoli.
Lo zucchero a velo si sposa in chiesa.
Un reporter è un cane free lance.
Un premio è una cosa che era già mia.
La biografia è scrivere il proprio nome facendo la pipì su un muro.
La birra di rose è solo alla spina.
I polpacci sono dei deprecabili polipi.
“Ma li polpacci tua!” è un insulto da lavare con l’inchiostro.
Un distratto è un topo sbadato.
Un portapenne è un guardaroba per uccelli.
L’enciclopedia è la malattia infettiva dei ciclopi, che colpisce l’unico occhio quando legge troppo.
Una mensola è un pezzo di legno che muore di solitudine.
Youtube è la chat dei piccioni.
Il fuoco è il pianto del “caro estinto” dell’oca.
L’angolo retto ha la sua morale, nonostante la posizione.
Un campo di grano spara un sacco di balle.
I girasoli sono avvitatori di stelle.
I girasoli quando non avvitano sono dei vagabondi erranti.
L’oleodotto è un olio molto istruito.
Un macigno è un cigno palestrato.
Un gilette è un rasoio senza maniche.
Un mozzicone di sigaretta ben assestato lascia il segno dei denti.
La corrente elettrica a volte fa venire il mal di gola ai tralicci.
Il palco è un rapace di spettatori.
Il cacciavite è lo spauracchio della grappa.
Allucinare è l’arte di cucinare coi piedi.
La corona è una cantante gospel molto robusta.
Al mulino che si arrabbia girano le pale.
Un muro di gomma cancella migliaia di matite.

venerdì 27 aprile 2012

Profezia a breve termine


Io ho un caro amico che conosco da più di vent’anni e con cui mi diverto moltissimo. Ma non è sempre stato così. Quando ci conoscemmo, nonostante fossimo adolescenti, non erano molte le occasioni di vedersi perché lui era sempre malato di febbri misteriose. A 17 anni prendeva tante di quelle medicine ed antibiotici da conoscere a memoria lo scaffale di una farmacia. Un giorno però, durante uno dei tanti pomeriggi passati a letto a curarsi, si stava annoiando a morte, e cominciò a leggere un libro. Poi ne lesse un altro e un altro ancora. Senza accorgersene, col tempo le febbri cominciarono a diminuire. Passarono prima giorni, poi mesi e infine anni, senza essere costretto a prendere medicine. In compenso, era diventato un divoratore di libri. L’altro giorno ha festeggiato i 5 anni dall’ultima aspirina addirittura e per regalo che cosa si è comprato? Un libro, ovviamente. Già, io ho un amico che si è salvato la vita perché ha cominciato a leggere libri! Ne ha letti così tanti che l’altra settimana, non è più riuscito a trattenere la gioia che gli è venuta nel cuore. Ha preso carta e penna e come posseduto, come folgorato sulla via di Damasco ha cominciato a scrivere:
“Tutto quello che posso dire senza neanche pensarci un attimo è comprare un libro, cercare una panchina metà al sole e metà all’ombra e iniziare a leggere. A leggere sì, e magari portarsi dietro anche una penna e un quaderno, perché se per caso si legge qualcosa di miliare, dici porca miseria questo me lo devo segnare, se solo avessi carta e penna. E tu..zac! ce l’hai! E allora la scrivi. E scriverla è una cosa diversa da leggerla. Sì perché ci metti del tuo, la ripeti mentre la copi e poi va a finire che te la ricordi. Scrivere, scrivere, sì scrivere dappertutto per ricordarti le cose devi fare, quelle da sapere e quelle da dimenticare. Così hai la testa più libera, meno ingombrata. Per cosa? Per leggere, ovvio!!
Per scoprire che i prepotenti sono sempre esistiti, che la peste falciava vite, ma i ragazzi ci credevano lo stesso. Altro che lamentarci perché non ci rivolgiamo un saluto, con la peste famiglie intere venivano sprangate in casa per evitare che si diffondesse il contagio, ma un Renzo e una Lucia e un fra Cristoforo, li si trovava sempre. Anche nel 1600. Sì perché c’era il vigliacco che non osava dire niente come Don Abbondio, esisteva da secoli anche un Azzeccagarbugli, uno di quegli avvoltoi travestiti da avvocato forte con i deboli e debole con i forti. E poi c’era un Don Rodrigo prepotente e smargiasso, e un altro ancora più potente di lui. Talmente potente che non lo si poteva nemmeno chiamare per nome tanto faceva tremare di paura la povera gente. Un innominabile, l’Innominabile!
Ma alla fine chi doveva schiattare schiattava per le proprie malefatte e la vita riprendeva il suo corso. Non ci siamo mica estinti. Un Renzo e Lucia che fanno figli ci sono e ci saranno sempre. Come ci saranno sempre le suocere…Ah la suocera terribile! ma senza Agnese come si sarebbe potuto fare?
E ci saranno sempre persone che faranno incredibili cacce al tesoro inseguendosi nei libri, e apparecchieranno la tavola e prepareranno una cena squisita per gli scrittori loro preferiti. Per ringraziarli dei regali ricevuti e pagati spesso a caro prezzo da loro stessi in prima persona, fra un elettroshock e l’altro magari, o resistendo ai morsi di decine di Don Rodrigo, solo per raccontarci una bella storia, una di quelle che poi capita che ti ci ritrovi proprio tu!
E allora, ti metti a scrivere. A scrivere per gratitudine, per ricambiare almeno un grammo di ciò che hanno fatto per te. E ringrazi, dici grazie. Prima a loro, poi ti guardi intorno e non ti fermi più: dici grazie alla tua penna, a chi si alza tutte le mattine  per andare a lavorare nella fabbrica per farle, dici grazie alla carta, all’albero che te l’ha data e agli uomini che l’hanno lavorata. Ringrazi la panchina su cui siedi, chi l’ha saldata e chi l’ha verniciata, dici grazie ai vestiti che indossi, agli occhiali che porti. A chi li ha inventati e a chi li ha fatti. Quante centinaia di persone a cui dire grazie solo per il semplice fatto di essere seduto al parco con in mano un libro, una penna e un foglio!
Ti viene voglia di fare qualcosa di buono per gli altri, di fare la tua parte, per tutti quelli a cui devo dire grazie per quel momento di pura felicità. E che è ora di svuotare la testa e mettere su di un foglio. Perché sgombrare la testa? Ma per leggere, ovvio!”

lunedì 23 aprile 2012

Arbres Magiques


Li pettino, poi li spettino. Tutte le mattine. Ogni santo giorno mi alzo, sbadiglio e  voilà. Le  chiome si piegano dolci e poi ritornano come prima. Mi danno il buongiorno così. Mi aspettano.  Io allora rispondo e loro si piegano di nuovo. A volte andiamo avanti per ore. Il giorno che ho creato gli alberi credo di essermi superato. Non ero certo stato con le mani in mano fino a quel momento, anzi. Mi ero già dato un gran da fare: il cielo, i mari, le montagne. Ma ero particolarmente ispirato il giorno che ho creato gli alberi. Ricordo di aver pranzato con un’insalata di luce, per rimettermi dopo aver finito di riempire gli abissi. Un’attività anche divertente all’inizio, ma mano a mano che il livello delle acque si alzava, il fondo scompariva e cominciavo ad annoiarmi. Mi prudeva pure dietro un orecchio e ho iniziato a grattarmi, ma ero così concentrato sulla vasca che si andava riempendo, da non accorgermi che a forza di ravanare, il cielo si era popolato di stelle. Mi sono voltato dopo un po’e sono rimasto sorpreso. Davvero sorpreso. Adoro quando faccio le cose senza pensarci. Sono quelle che mi vengono meglio. Comunque, so che non dovrei avere figli e figliastri ed infatti non ne ho, ma che dire, gli alberi per me sono un gran diletto. Danzano tutto il giorno, a volte mi diverto a farmi fare il solletico sotto la barba o la pancia, altre li suono come una grande orchestra. I baobab africani tengono il ritmo, sono dei bassi formidabili. Avete mai fatto caso agli animali della savana? Talvolta come rispondendo ad un impercettibile ordine, intere mandrie si muovono insieme correndo di qua e di là, come se avessero un’unica grande anima. Sono io che suono i baobab, ineguagliabili subwoofer della terra che scotta. La savana trema ed inizia il rave: leoni, gazzelle, zebre, giraffe, antilopi. Vamos a bailar!
E poi le querce, i cipressi, le betulle, gli olivi, i ciliegi, gli eucalipti, i castagni e i salici da ogni parte del mondo cominciano a suonare un allegro con linfa, un lento piangente o magari un fiorito trionfante.
In testa infine, ci sono loro, i pini, i miei primi violini. Così devoti, così disciplinati.
Suonano per ore, a volte per interi giorni, incessantemente, concentrati da non accorgersi del succedersi delle stagioni: caldo, freddo, neve o pioggia, non perdono un ago, un accordo, un tono di verde. D’inverno si piegano, indossano il mantello bianco, come gli esseri umani quando si mettono dei pesi alle caviglie o ai polsi, per sviluppare i muscoli. Gli uomini se li mettono anche in casa vestendoli di palle colorate e strenne d’argento. E loro si prestano, come pagliacci di corsia che portano un sorriso nei cuori sofferenti dell’umanità. Accidenti agli uomini! Che grattacapo! Li avevo lasciati per ultimi, volevo concludere in bellezza. Ci ho pensato su, mi sono concentrato, volevo fossero la ciliegina sulla torta. Li ho creati più evoluti di tutti, ma non fanno che cadere, inciampando di continuo sui propri passi. Invece di guardare su e gioire con tutti noi, si guardano i piedi con il moccio al naso. Li potrei spostare di pianeta e la maggiorparte di loro neppure se ne accorgerebbe. Ogni tanto mi viene voglia di tirare fuori gli ippopotami dall’acqua e scambiarli di posto. Almeno il naso colerebbe per un motivo valido. È che li dovevo fare senza pensarci, come le stelle. Lo sapevo! Vabbè, solo chi non fa non sbaglia mai niente. Vanno bene anche così…ci metteranno solo un po’ di più a tirare su il naso, noi nel frattempo ci divertiamo. Quando vorranno unirsi, saranno i benvenuti. Intanto, mi studio che strumenti far loro suonare, però senza pensarci troppo questa volta, se no è peggio. Ecco, ci sono! Che comincino dal campanello per entrare! Glielo ho nascosto in pancia, magari lo trovano prima di finire di riempirmi di plastica e petrolio tutto il pianeta. Che non ho ancora capito cosa ci sia di divertente nel farlo. Boh.. che gusti strani hanno sviluppato. Mannaggia a quando ho fatto camminare su due piedi quelle scimmiette stolte! Tempo, ci andava più tempo. Ho avuto fretta di farli subito grandiosi e la fretta è l’unica cosa rimasta loro appiccicata addosso. Su, alzate sta testa, che vi aiuto! Suonate il campanello che vi vengo ad aprire.

venerdì 13 aprile 2012

L'uomo delle barchette

Pensare che l’altro giorno quando sono passato di qui, non avevo mica visto la barca issata sul ponteggio per essere catramata di nuovo. Ero talmente assorto nei pensieri da non accorgermi che la barca dello zio non era al suo posto. Lo zio ci sa proprio fare mi sono detto, e continuando a camminare ho tirato fuori dalla tasca un biglietto del tram usato. Io ho una passione, una grande passione…costruisco barchette di carta. A centinaia. E poi le regalo. Tieni, questa è per te.