Avrò avuto quattro anni. Mia sorella sette. Era una domenica mattina di tarda primavera, quando il sole sta scaldando i muscoli. L'ideale per volare
sopra la città. Con un aereo vero e proprio, perché di voli con la fantasia avevo già il patentino. Il mio passatempo preferito consisteva nello sdraiarmi
sulle piastrelle amaranto del balcone di mia nonna, per fissare il cielo e il
movimento delle nuvole. Quanto silenzio faceva la mia mente, allora. Oggi, devo stancarmi come un cavallo, sfinirmi per oltrepassare la coltre dei
pensieri. Ricordo il rombo di quel piccolo velivolo. A fianco del
pilota sedeva il mio papà, dietro la mamma in mezzo a me e mia sorella. Passai il tempo a guardare la strumentazione di bordo, stordito dal rumore del motore. Anche perché non arrivavo al
finestrino. Mi avevano legato come una salsiccia, non vedevo quasi nulla. Ero stato più affascinato dal maneggiare del pilota e dalla bocca di mio padre che vedevo muoversi, senza capire cosa dicesse. Sembrava un pesce. D’altronde, anche quando lo sentivo, ero molto più sensibile ad un incomprensibile tono duro che alle parole. Comunque, fare una
cosa apparentemente eccezionale come volare, era stato meno affascinante
dell’immaginarlo. Sarà lì che ho cominciato a fuggire nell’immaginazione? Credo di no, ma quando mi sdraiavo a fantasticare dimenticandomi di me stesso, rotolavo in piena estasi fra soffici nuvole che prendevano vita, diventavano personaggi di storie mirabolanti, cose, animali. E se mi voltavo, sotto di me c’era il
vuoto. Mia nonna abitava al secondo piano. Cosa darei oggi per farle una sorpresa, suonare il citofono, farmi aprire. Lei non c’è più da ventitré anni. A Roma, quando si esclama: “23!”, qualcuno ti risponde con un sorriso “..bucio de culo!” Il ventitré porta bene.
E quanto me ne ha portato. Nessuno mi ha voluto bene come lei. Nessuno. Si
sarebbe fatta ammazzare cantando per me, senza pensarci. L’unico esempio di
amore incondizionato che abbia conosciuto, ma che fortuna avere qualcosa da cui attingere. Di quella gita in aereo, mi rimane un acufene e l' eccitazione di mia madre e mio
padre. Un piccolo momento di famiglia felice, a cui non ho mai partecipato. Io e mia sorella
dietro, avevamo già perso la spensieratezza, eravamo stati trasformati nei loro genitori, come capita a milioni di cuccioli messi al mondo da bambini che a dispetto delle apparenze, non sono mai diventati adulti. Poverini. Figli come oggetti di proprietà di cui disporre a piacimento, da succhiare loro l'amore fino all'ultima goccia. Certi genitori andrebbero ammazzati. Io li ho perdonati. Forse. No.
Se potessi tornare
indietro, mi accosterei a me stesso nella culla. Vorrei sedermi vicino ed
accudirmi in silenzio per tutto il tempo del mio dormire. Vegliarmi. Vorrei stare
lì, guardarmi, struggermi del più dolce amore mai provato, accarezzarmi la
testa. Sussurrarmi la persona meravigliosa che sarei diventata. Vorrei essere lì
per proteggermi, per riversare su di me tutto l’amore che meritavo, perché figlio,
perché creatura. E se mi fossi svegliato e avessi cominciato a piangere, avrei
voluto essere lì per prendermi in braccio, facendomi sentire
al sicuro. Mi sarei calmato cantandomi una nenia, un dolce miele per le piccole
orecchie di quel dono di Dio che sono stato. Io, madre e padre di me stesso. Felice di
avermi avuto.