martedì 14 ottobre 2014

Incontri sotto la pioggia

Camminare nel parco quando piove, in giro non c’è nessuno. Si sente solo il rumore della pioggia sugli alberi, il fiume scorrere gonfio ed un fruscio di foglie gialle e rosse sotto gli scarponi
Il parco cittadino oggi pare un altro. Sa di natura indisturbata. Una sensazione che mi riporta indietro di qualche mese, in Canada, ad una piovosa escursione nell'immenso parco di Algonquin, nell'Ontario. Un paradiso che alterna boschi rigogliosi a decine di laghetti puntellati dal lavoro dei castori. Non c'era nessuno in giro anche quella volta, solo io ed un’altra matta. Quella mattina, avevamo avuto un incontro speciale. In un punto dove il sentiero lasciava il bosco, per aprirsi su una baia coperta di ninfee, era comparsa la figura statuaria di un grosso animale. Pareva imbalsamato, lì per farsi ammirare dalle famigliole di turisti a spasso nelle giornate soleggiate. Il tempo di voltarmi per segnalarlo che quel cesto di corna si era voltato, per guardarmi: si trattava di un maschio di alce. Alto, molto alto. Ma quanto è alto un alce? Gli arrivavo a malapena all’inizio del sedere. Era più grande di un cavallo, ma per mia fortuna, non avevo perso la calma. Dentro di me avevo cominciato a ripetere come un mantra: "E’ erbivoro…è erbivoro…è erbivoro…" per non pensare al fatto che ci trovavamo a cinque metri di distanza, in mezzo al nulla. Eravamo noi gli intrusi, lui era a casa sua e se avesse voluto con un calcio o una carica, ci avrebbe messo ko in un secondo. Il giorno prima in ostello, avevo letto una serie di consigli utili in caso di incontro con un orso: non scappare correndo, non salire sugli alberi, parlare in modo monotono lentamente, con calma. Se non se ne va, cominciare a tirargli dietro tutto quello che capita sotto mano. Non molto rassicurante, ma d'altronde non l'aveva ordinato il medico di andare in mezzo ai boschi sotto la pioggia ad arrischiare incontri. 
Intanto, l'alce continuava a fissarmi. D'istinto, avevo allargato lentamente le braccia e cominciato a farfugliare qualcosa, come se parlassi ad un grande capo indiano: “Vengo in pace, sei bellissimo, non ci fai del male, vero? Scusa se ti abbiamo disturbato”. Eravamo tutti e tre lì immobili e fradici di pioggia, quando siamo entrati in contatto con lo sguardo, e mi sono sentito letteralmente leggere dentro da un’intelligenza che non mi aspettavo. Non solo stava valutando se eravamo pericolosi, ma sentivo che aveva coscienza. Da parte mia, avevo cercato di eliminare tutta la resistenza che potevo. Ed aveva funzionato! L’amico si era voltato per riprendere a mangiare foglie dagli alberi come se nulla fosse. Era il segnale che eravamo stati accettati. Più tardi, in ostello avevamo scoperto di essere stati fortunati perché difficilmente si fanno vedere, tanto meno avvicinare. E solo quando pioveva molto scendevano così a valle. D'altronde, quel giorno gli unici cretini in giro eravamo noi; col senno di poi l'ho immaginato sorpreso a pensare “ma che ci fate qui, esauriti? Non vedete come piove?” Rassicurati, ora l'osservavamo mangiare, rapiti. Era semplicemente bellissimo. Maestoso, fiero e buono. Ogni tanto si fermava e ci guardava. Dopo qualche minuto però, mi era ripresa l’agitazione. Scampato il pericolo, la preoccupazione era per la pioggia battente e per noi che dovevamo per forza passare di lì, per proseguire. Non volevamo innervosirlo, ma eravamo molto vicini e la sua mole sbarrava la strada. Ci eravamo così avvicinati lentamente cercando di passargli il più lontano possibile, come Fantozzi e il ragionier Filini che si tenevano per mano. D’un tratto aveva smesso di mangiare e rinculato con le zampe posteriori, ma poi aveva fatto uno scatto e cominciato a correre nella direzione in cui dovevamo andare pure noi. Poi si era fermato per ricominciare a mangiare. Problema rinviato di venti metri. Aveva fatto così quattro volte. Eravamo diventati una squadra: io e Francesca ci avvicinavamo, mentre lui ripartiva quando giungevamo a distanza di sicurezza. Alla quinta, era sceso da un lato del sentiero, fissandoci fra l’erba alta. 
Cavolo, avevamo fatto amicizia e camminato un po’ insieme. Non ci aveva attaccato, né era scappato! Anzi, nella magia di quello sguardo mi ero sentito vibrare nel petto un'energia primordiale, quasi a dire: “Su la testa, ragazzo!”
Per i tre giorni successivi ero stato posseduto da una grande forza buffa e mansueta. Trotterellavo in ostello fra le risate generali dicendo: “I met a moose!…I met a moose!”. Ho incontrato un alce! Ho incontrato un alce! Quel mattacchione, una volta capito di non trovarsi in pericolo, ci aveva fatto compagnia per qualche minuto, indicato la strada e salutato. Un bel regalo.
Torno alla mia passeggiata e alla fine del viale alberato, dove abitualmente si vede pullulare un'umanità di corridori, ciclisti e bimbi, compare un gregge di pecore e caprette. Rimango di stucco, saranno più di cento capi. Mi ritrovo circondato da pecore, agnellini sdraiati a un metro da me, sotto lo sguardo delle loro madri. Un manto di lana che saltella su entrambi i lati della strada. Mentre passo, mi guardano tutti, senza smettere di mangiucchiare però. Compreso un caprone nerissimo che mi fissa dal centro della strada facendomi salire la stessa eccitazione provata al cospetto dell’alce.Cerco subito con gli occhi i cani ed i pastori, ma li scorgo in lontananza e  me la dovrò cavare da solo. Me la faccio di nuovo un pò sotto, come con l’alce. Piccolo e prepotente, il caprone mi rivolge le corna per nulla intimorito. E’ il capo. Ritento la mia versione di san Francesco da passeggio e mi va bene. Si cheta ed io passo. A quanto pare non sono il suo capro espiatorio del genere umano.  
Poco più in là incontro un papà con un bimbo. Si aggirano in mezzo al gregge. Ci salutiamo, scambiamo due parole, condividiamo l’eccitazione, ci sentiamo vivi e felici. 
Poi dicono che quando piove, è tutto grigio e triste e non succede mai niente.




domenica 8 giugno 2014

Essere Umano Occupato

Assemblee, beni comuni, spazi occupati. Lotta, partecipazione.  Tutti al lavoro, a ricostruire la nuova umanità. Perché però i sogni di cambiamento si riferiscono direttamente alle cose, al fare, e non partono dall’essere qualcosa di diverso? Siamo sempre in balia di un pendolo dal nome possesso, ipnotizzati. Andare “contro” chi possiede tanto e non lascia agli altri che le briciole contribuisce a nutrire il moto perpetuo della sua oscillazione. Una spinta la danno i “pro”, una i “contro”. Tutti a dargli energia in un modo o in un altro. E se non ce ne importasse un bel nulla a un certo punto di focalizzare ogni sforzo sull'appropriarsi qualcosa di esclusivamente materiale? Qualcuno disse che i problemi vanno trascesi, non risolti. Questo suona però come inaccettabile per gli animi volenterosi dei "contro" qualcosa di ingiusto, ma per i lavoratori sull’essere umano è una verità. Essi sanno dove si gioca in realtà la vera partita. Nel mondo dell'immateriale, non nel materiale.  Essi l’assemblea ce l’hanno dentro: fra il cuore, la pancia e la mente caotica. Il bene comune sono gli organi, le braccia, le gambe, il sesso, la carne tutta. La lotta è fra la testa e l'ombelico; sono loro che si contendono il respiro ad ogni impulso. La partecipazione è una richiesta supplichevole inviata ad ogni cellula del corpo. Richiesta che il 99% delle volte viene disattesa perché ci parte dal centro sbagliato per ottenere una risposta viva. Quasi tutta l'umanità è prigioniera della mente. Quella parte di umanità almeno che non avrà forse fame, ma versa in un stato di perenne dormiveglia. Il povero Dio Pan nel suo corpo caprino scuote la terra. Non può fare altro che scatenare attacchi di panico per riaffermare la verità della vita e della natura sulle nostre costruzioni mentali. L’essere umano è il vero teatro occupato. Non è un abusivo, egli è l'abusato. E un essere umano occupato, non può fare altro che occupare, a casa sua, dentro di sè, non c'è ancora posto per lui. Non è stato ancora scoperto e lo cerca fuori. Ma nulla si trova al di fuori di noi che non sia stato scoperto all'interno. E’ una legge. Anche questo i lavoratori sull’essere umano lo sanno. Ma quando un essere umano è libero, libera. Esegue egli stesso attraverso la sua persona, un tacito lavoro, da rivoluzionario. Gli spazi li crea nelle persone prima ancora che nelle cose. Perché quello spazio l’ha prima scoperto e creato dentro di sé. Quasi a sua insaputa accende qua e là come un interruttore della luce qualche osso sacro di qualche altro essere umano. Spesso senza neanche aprire la bocca.  Rivitalizzatori di culi pronti al risveglio. Di schiene che inizieranno un processo che oltrepasserà il pensiero, drizzandosi al cielo come tante antenne. Il wifi divino. Sarà questa la rivoluzione dal basso? 

lunedì 21 aprile 2014

Chiacchere da bosco

Questi “pidocchi” non li capisco proprio.

Cosa intendi?

Non lo vedi anche tu quanto sono scemi? Si ammazzano per possederci e non si accorgono che siamo noi a possedere loro.

Ma che dici?

Su dai è come quando le api vengono da noi fameliche e poi cadono a terra e si decompongono fra le nostre radici. Si dannano per quei due battiti di fronde che vivono per disputarsi i nostri fiori e poi siamo noi a nutrirci di loro. E così rinascono e così muoiono di nuovo e di continuo. Mentre noi sempre qua stiamo.

Beh, se è così, vorrà dire che è giusto così.

Infatti, non ce l’ho mica con loro, amiche industriose che con il loro andare di fiore in fiore lavorano con e per noi.

Con chi ce l’hai, allora?

Con gli uomini ce l’ho. Sono stupidi al punto che mi chiedo se Dio è proprio sicuro di quello che ha fatto. Poi mi dico che sono solo un albero e che non sono io quello che deve capire. Però…

Cosa?

Tu hai mai sentito in tanti anni le api schiavizzarsi fra di loro, accampando diritti di proprietà su di noi, l’erba, la terra? Hanno le loro gerarchie, sì, ma nessuna si è mai sognata di vendersi me o te. Ti rendi conto? Ora ti vendo alle api laggiù. E se viene un’ape che non sia di quell’alveare là, la faccio arrestare.

Non fare lo spiritoso. Questi fanno sul serio. Si ammazzano.

Già. E vivono il tempo di qualche fioritura. Che spreco. Che enorme spreco. E che importanza si danno vantandosi di possederci. “Questo terreno è mio,…il mio bosco, i miei alberi.” Non riesco neanche a dirlo senza scoppiare a ridere….Mmm..

Che c’è ora?

Ho fame. A noi ci tocca sempre sentire queste cretinate, mentre guarda là, i cipressi sopra quelle lapidi, come crescono in salute. Ingordi!

domenica 12 gennaio 2014

Minuetto

Quella casa non era in vendita. Nonostante da fuori paresse rifinita in tutti i particolari, al suo interno mancava il pavimento. C’era da chiedersi come fosse stato possibile costruirla. Le pareti intonacate di un bianco candito, la luce che entrava dalle finestre che ne risaltava ancora di più il candore, eppure varcata la soglia si precipitava nel vuoto. La porta di ingresso infatti, una volta aperta dava sul nulla. Non una colata di cemento, una fondamenta, una piastrella. Niente. Sembrava fosse stata costruita dall’alto, invece di aver scavato e gettato la base per le colonne in cemento armato. Al suo interno, si poteva solo saltare da una parete all’altra ed i due muratori, un uomo ed una donna balzavano e si aggrappavano alle finestre incrociandosi in aria. Sembrava di assistere ad una danza fra uccelli. Il bianco delle pareti illuminate dal sole faceva sembrare la casa una nuvola spigolosa, compreso il tetto, anch’esso bianco. I due non proferivano parola, né si guardavano; saltavano insieme come rispondendo ad un unico impulso ritmico e perpetuo, mentre schizzi di lacrime nere colavano e si solidificavano sui loro volti di pierrot. Era la casa di un uomo addormentato. Ogni notte la rivedeva in sogno dalla prospettiva del nero nulla del pavimento. Allungava le mani, mentre quei due in alto volteggiavano e una voce cantava “Minuetto” di Mia Martini. Piangeva, straziato dalla bellezza di quei due corpi e dei loro volti malinconici che danzavano alla luce del sole. Era casa sua, anche se assomigliava di più ad un albero con due uccelli avvolto nelle nuvole. Poi si svegliava e scendeva dal letto fissando con rancore sordo il pavimento. La Terra lo pretendeva e lui malediceva lei, il pavimento ed i suoi goffi piedi doloranti.