sabato 17 novembre 2012

Polpette di speranza


Roma, quartiere Testaccio. Alle mie spalle il teatro Vittoria. Qui seduto su di una panchina, consumo la mia cena alle ore 18. Presto, molto presto, ma oggi è un giorno particolare, stasera sono in scena, qui a due passi, al Teatro Antigone. La cena prevede quattro polpette al sugo, una leccornia che mi riporta indietro nel tempo. Francesca, me le prepara quando vuole coccolarmi, sa che le adoro. Le faceva mia nonna paterna, quella napoletana, la domenica a pranzo. L’odore si è impresso fin da bambino e non l’ho più dimenticato. Con la sua morte, insieme a lei se n’è andata una sapienza da donna di altri tempi e ahinoi anche le sue polpette. O almeno come le preparava lei, con la mollica di pane nell’impasto. All’epoca dell’arrivo a Torino della famiglia di mio padre alla fine degli anni sessanta, l’aggiunta della mollica era un modo per allungare il più possibile la carne che ci si poteva permettere di comprare. La famiglia numerosa, sei figli ed una moglie casalinga. Quelli in età da lavoro tutti diligentemente assunti in qualche fabbrica od officina. Un classico della Torino e Milano di quegli anni. Così la domenica, il mastodontico lavoro per mia nonna di dover pensare al pranzo, la cena e alle pietanziere del lunedì per i lavoratori. Mio padre mi ha raccontato che il massimo del piacere consisteva nel ritrovarsi il lunedì con i maccheroni al ragù nella vaschetta d’acciaio grande e due polpette con un po’ di patate fritte mischiate con il sugo in quella più piccola, per il secondo. Come dargli torto. Ricordo bene nella mia piccola parentesi da operaio, a cui mi sono ribellato, il  gusto della sorpresa nel rito di aprire il contenitore del pranzo. Spesso, unica fonte di conforto per l’intero arco della giornata. Ebbene, quelle polpette lì della nonna, quelle non ci sono più. Trent’anni di matrimonio infatti, non sono bastati per convincere mia madre ad usare la mollica nell’impasto. Lei le fa di sola carne, dice che sono migliori. Non è vero, non è la stessa cosa, ma non c’è stato verso. Così, niente più mollica e magica consistenza. Ma non è per via delle polpette che ho provato un sussulto di speranza. Speranza vera, da farmi dimenticare le polpette (anche se devo dire che Francesca la mollica la mette, ce l’ha già nel dna,  per mia fortuna). A venti metri da dove sono seduto, diversi bambini dai sei ai dieci anni stanno giocando a pallone. Il loro vociare da pulcini è incessante. Ad un tratto, in un momento in cui lo sguardo è rivolto verso di loro, uno dei più piccoli viene colpito in pieno volto da una pallonata. Nonostante abbia fatto in tempo a ripararsi un poco con un braccio, viene abbattuto come un birillo, in modo piuttosto comico. Succede però l’inatteso. Invece di scattare sfottò o sentire risate divertite, tutti si fermano, i più grandi in testa,  gli si fanno intorno per rimetterlo in piedi ed assicurarsi delle sue condizioni. Qualcuno scruta il viso, altri lo abbracciano, pacche sulle spalle. Altri ancora si prodigano per rincuorarlo e farlo sorridere. Senza nessuna fretta, riprende la partita. Nessun cinismo, aiuto dai più grandi, affetto, amore. Sono rimasto lì con la forchetta in mano, come un pezzo di baccalà. Ho fatto uno sforzo per riportare la memoria alle mie partite di pallone in cortile, e mi è venuto in mente di una volta che ricevetti io una violenta pallonata in pancia da farmi piangere e trattenni le lacrime per non essere ulteriormente deriso, o un’altra in cui subii le botte e le angherie dei più grandi, mentre con il mio migliore amico venivamo gonfiati come zampogne. La famosa legge della strada.
Un’ora prima intanto alla fermata del bus, due adulti di più di quarant’anni si erano appena azzuffati con le mani al collo perché uno aveva ostruito la discesa all’altro. Da parte dei passeggeri tanta eccitazione tutto intorno, fra chi voleva sapere chi avrebbe voluto la meglio, conducente compreso che si godeva la scena.
Alla fine, vedendo questi bambini, ho sorriso e mentre ritiravo le mie cose ho pensato che c’è speranza, l’essere umano ha ancora speranza. Questi, mi sono detto, sono diversi, questi rimettono le cose a posto. I bambini della nuova specie stanno arrivando a migliaia. 

mercoledì 14 novembre 2012

Rivelazioni 2


La cerbottana è un’arma dai facili costumi.
La gravidanza è un ballo per donne incinta.
Il calcestruzzo si prepara mettendo la testa sotto la sabbia.
La carta velina non fa provini.
I lampioni sono frutti di bosco che si vedono anche di notte.
Una cicogna non si è mai sognata di dire ai propri figli che sono stati portati dagli uomini.
Il violoncello è un incrocio fra una viola e il limoncello.
I contrabbassi sono il sindacato delle persone alte.
Il bucato è un insieme di panni tossicodipendente da ammorbidente.
Nella raccolta differenziata, la carta-vetro dove si butta?
Un disco in vinile non incolla.
Un libro giallo ha problemi di fegato.
Una riflessione, è una flessione fatta più volte.
In mare, uno pesce di casa.
Un flauto traverso non va giù al musicista.
A Riace, ci sono almeno un paio di facce di bronzo.
Un maglione è un grande pugno.
Il salmone è un pezzo della Bibbia particolarmente lungo.
Un fungo anche se non si annoia fa la muffa, non si sa mai se si sta divertendo.
Un marchingegno, è un cervellone di Ancona.
Un gabbiano è un culo in prigione.
L’orchidea è la divinità femminilità degli orchi.
L’orcodio, no.
Un pupazzo è un peluche folle.
Un profilattico è un attico visto di profilo.
L’intonaco è un monaco intonato.
Il surrealismo è un movimento che ha portato lo spirito Dalì…a qui.
Un calabrese migrato a torino ama l’anduja quanto il Gianduja.
Un coccolone è un infarto per mancanza di coccole.