giovedì 31 ottobre 2013

PARLA CON ME

Senti, è faticoso. Perché devo continuare?
Perché no?
Cosa lo domando a fare se mi rispondi con un’altra domanda?
Allora non chiedermelo.
Quando fai così, ti odio.
Mi odi? Ti odi, vorrai dire. Io amo.
Perché dici che mi odio? Sentiamo.
In verità, non sei proprio tu che ti odi, è una parte di te che parla in continuazione con la tua voce, e tu scambi per te.
Chi sarebbe allora, se non sono io e neanche tu? Ma quanti siamo?
Te l’ho detto, è una parte di te che credi essere tu, ma non sei veramente tu, tantomeno me.
Non ci sto capendo più niente. Chi l’ha invitata allora, perché parla con la mia voce?
Vuole distrarti.
Da cosa?
Da farti scoprire ciò che sei. Nel tuo intimo.
Intendi, dentro le mie mutande?
No, un altro tipo di intimo.
Ah.
Ora hai capito?
Più o meno. So solo che mi dice un sacco di brutte cose. Sembra che provi gusto a spaventarmi e a darmi tormento.
Lo so.
Lo sai?! Falla stare zitta, no?
Io? Se lo faccio io, allora cosa serve? E' una sfida. Divertente.
Divertente?! Senti, ma cos'è un gioco?
Certo,sì. Suona strano, ma è così.
Ah, è un gioco? Credi che io mi diverta?
Continua.
A far che?
A cercare.
Cosa? Cosa c’è da cercare?
Il silenzio. Non hai bisogno di altro.
Lo capisci che è proprio qui il problema? Quello non sta mai zitto!
Non dargli più da mangiare, fallo morire di fame.
Morire di fame? E come si fa? Se è qui, nella testa, con me e con te.
È facile. Fallo sfogare, non reagire. Guardalo. Se non ti fai sconvolgere, la smette subito. Fa lo sbruffone, ma è un gigante dai piedi d’argilla.
E poi?
Poi, parla con me.
E chi sei tu?

Io sono l’Argilla che plasma i giganti. 

mercoledì 25 settembre 2013

La tartaruga, l’olmo e la lumaca

“Senti, mi puoi dare un passaggio? Te ne prego. Vorrei  tanto scoprire cosa si prova ad andare forte.” La lumaca era seria, ma la tartaruga non pareva gradire: “Che fai sfotti?”
“No, dico sul serio. Ti ho spiata spesso e provo una grande invidia per le tue zampe possenti e la tua velocità. Mi porteresti sopra di te? Te ne prego. Non so cosa darei per sentire il vento e sbavacchiare per non seccare.” Così’ dicendo, piegò le antennine all’indietro in segno di supplica.
La tartaruga si sentì per un attimo spiazzata. Dopo un lungo silenzio che alla lumaca parve interminabile, disse:” In novant’anni ne ho viste e sentite di tutti i colori, ma questa non mi era ancora capitata”,  e scoppiò in una fragorosa risata.
“Allori mi porti? Dai, dai ti prego!”
“Erano 27 anni che non mi capitava di ridere. Va bene. Salì su allora, e tieniti forte mi raccomando.”
La lumachina non stette più nel guscio dalla felicità, anzi avrebbe quasi voluto lasciarlo lì dov’era per salire più in fretta, ma poi pensò che magari sarebbe morta di freddo andando così veloce, o abbrustolita visto il sole caldo.
L’operazione di risalita richiese circa tre ore, la tartaruga pareva una montagna da scalare, tanto era grande. La piccola le si arrampicò su per una zampa posteriore: si saliva bene, la pelle rugosa  permetteva una buona aderenza e la testuggine da parte sua aveva anche trovato un modo per ingannare l’attesa. Infatti, era ora di pranzo e nel posto in cui si trovava, un succosissima insalatina ricopriva il terreno e ne approfittò. Poco dopo finì anche per chiudere gli occhi e si assopì.
 “Sono qui! sono qui! Ce l’ho fatta, sono salita!” esclamò all’improvviso la lumachina dopo tanta fatica. “Che magnifica vista si gode da quassù.” Era riuscita ad arrivare fino al guscio, proprio dietro il collo della sua nuova amica che svegliata di soprassalto, ancora un po’ ci rimase per lo spavento.
 “Accidenti, ce ne hai messo di tempo, mi ero completamente dimenticata di te.”
“E’ bellissimo da quassù, sono sfinita e come è rovente il tuo guscio sotto il sole. Ti prego parti, qui si schiatta di caldo, fammi sentire il vento sulle antenne.”
“Il vento sulle antenne?” e rise di nuovo. Non aveva mai pensato che qualcuno un giorno avrebbe apprezzato la sua velocità. Gli altri animali, l’avevano sempre presa in giro, a volte anche in modo poco carino. Da  giovane ne aveva sofferto, ma crescendo ci aveva fatto l’abitudine ed anzi, quando qualche moccioso di leprotto le veniva a fare il verso, sorrideva e ammirava ripetersi ancora una volta il miracolo della vita, sfottò compresi.
“Bene, allora tieniti forte, si parte. Ti porterò a conoscere il mio migliore amico. E’ un tipo silenzioso, ma vedrai, ti piacerà.” Così dicendo si mosse sicura in direzione di un grande olmo.
Erano coetanei lei e l’albero. Il bisnonno dell’uomo che ora si occupava di lei, aveva piantato quell’albero lo stesso giorno in cui si presentò al podere con una piccola testuggine sul palmo della mano. Era successo tanto tempo fa.
Poco per volta i due erano diventati amici, non avevano mai potuto usare la parola, ma comunicavano. Avevano visto succedersi gli uomini, le piante crescere, germogliare e appassire e gli animali riprodursi e morire. Loro però erano rimasti, e col tempo l’amicizia che li univa era diventata fonte di grande ristoro per entrambi. Non era facile avere  ancora qualcuno, un affetto. No, non lo era, ma in quella terra un olmo e una tartaruga si facevano compagnia.
Appena  si incamminò, l’ospite ebbe difficoltà a rimanere salda sul guscio e dovette aggrapparsi a ventosa per non venire sbalzata. Il vento poi le sferzò le antenne e, in un istante, provò la libertà.
“Siiiiì…….” Era al settimo cielo! Stava cavalcando la terra in sella alla sua custode.
L’olmo si scorgeva in lontananza, era l’albero più alto e rigoglioso e si era accorto dell’imminente visita. I passi dell’ amica scuotevano la terra ad un ritmo familiare, impossibile sbagliarsi, era proprio lei.
Quando furono ai suoi piedi la tartaruga arrestò la marcia e disse:” eccoci arrivate, questo è il mio amico olmo, sai lui è molto vecchio come me.”
“Ciao olmo, è un onore per me conoscerti, ma  sei  altissimo, non vedo più il sole” , disse divertita e per nulla dispiaciuta per un po’ di ombra.
Le possenti zampe della tartaruga distavano a non più di un metro dalle radici  e l’olmo accortosi della piccola ospite sulla schiena dell’amica, chinò una giovane fronda in segno di saluto, senza dimenticare di lasciare una foglia per la piccola, che affamata, gradì.
“Amica, che sorpresa è mai questa? Cosa ci fai con una lumaca sulla schiena?” chiese. Nessuno aveva sentito niente, ma i due quando erano molto vicini potevano sentirsi. Tutti gli alberi erano in grado di parlare in realtà, ma non amavano farlo sapere. Lei lo aveva scoperto per caso un giorno in cui si trovava sotto di lui e lo sentì lamentarsi per il freddo. Lui d’altronde l’aveva scambiata per un sasso e si era lasciato andare convinto che nessuno lo sentisse.
“L’ho portata con me, ho pensato che un po’ di gioventù facesse piacere anche a te. Pensa che mi ha chiesto di farle provare l’emozione della velocità.” e rise di nuovo.
“Perché ridi?” Chiese la lumachina intenta a rifocillarsi, che non poteva sentire la conversazione.
“Niente piccola, mangia tranquilla.”
“Infatti, perché ridi?” chiese anche l’olmo.
“Ma come perché rido? Io sono una tartaruga! Sono l’animale più preso in giro del mondo per la mia lentezza.”
“Beh anche la lumaca non scherza. E poi scusa, lo vieni dire a me che non mi sono mai mosso di qui?”
“Va bene, ma questo che cosa c’entra? Tu sei un albero.”
“Sarò anche un albero, ma la gioia di due passi l’avrei tanto voluta provare.”
“Beh, anch’io avrei tanto voluto godere della vista che ti è concessa. In tanti anni non ho mai potuto vedere che a un palmo dal mio naso.”

Per quel giorno i due non dissero altro, rimasero in silenzio, mentre la lumaca verso sera raggiunse nuovamente il suolo, colma di felicità: quel giorno aveva viaggiato ad una grande velocità ed aveva visto il mondo da una altezza mai raggiunta prima nella vita. Tornò esausta al suo fazzoletto di terra dopo due settimane di viaggio, e poco dopo morì in pace, con le antenne rivolte a nord, sognando di volare. 

martedì 30 luglio 2013

Un centimetro di nebbia

C’è qualcosa o qualcuno che ci mostra continuamente guinzagli, catene, gabbie. Devono essere i nostri fantasmi che mutano aspetto, che cambiano gli attori e gli interpreti intorno a noi, pur rimanendo sempre loro. Si succedono gli scenari, i lavori, i partner, ma è un po’ come essere alle prese con un’unica grande equazione personale da risolvere, fatta di provocazioni, resistenze, ostacoli.
Questa è la sfida, questa è la vita, bellezza!
Meraviglia e spavento. L’assenza di conflitto e una consapevolezza permanente non sono di questo mondo. Qui c’è sporcizia, imperfezione e questo gomitolo annodato ci obbliga ad evolvere di continuo, con le buone o con le cattive. Più sai e meno sai, lo dicevano già secoli fa. Più sai e più ti pare che ogni situazione non vada presa di impulso, perché poi le cose difficilmente si rivelano come paiono in un primo momento. Così ti fai chirurgo, gli occhi diventano strumenti, bisturi che spogliano, riducono a principi, svelano archetipi, dando il tempo alla pelle di smettere di bruciare. La chiamano realtà, ma è la più ingannevole delle menzogne. Eppure, delle scelte vanno fatte e queste riversano comunque le loro conseguenze nel tempo. Quali sono quelle giuste? Fortunato chi ha un cuore e lo usa, perché il cervello è spacciato a questo punto, si infila in un vicolo cieco. Gli fa orrore dover scegliere, non è mai d’accordo, del tutto pacificato. La libertà fa paura, perché bypassa il ragionevole, per accedere al vero.
Sembra che non la vogliamo più. La pelle anzi, ce la ipotechiamo il prima possibile. Ci precipitiamo a scegliere un guinzaglio ed a costruirci una gabbia intorno, perché tutti fanno così. Intanto, si paga un prezzo incalcolabile per una sicurezza fasulla, mentre non abbiamo la minima idea di chi siamo, quali siano le nostre attitudini e i nostri talenti. Cosa ci fa cantare l’anima quando lo  facciamo?
La libertà sfida i nostri limiti, i nostri schemi, i nostri pregiudizi. Le paure mai vinte, le cose che non ci piacciono, da cui ci chiamiamo fuori a prescindere, nella convinzione che così spariscano dalla nostra visione della vita, quando in realtà ce la limitano ancora di più di quelle a cui abbiamo provato a dire di sì con l’esperienza. Scoprire il più delle volte che il bau-bau è un palloncino che si buca con uno spillo. Una provocazione, un’illusione. La realtà quando la smascheri, ti regala il lusso di dire di sì a te stesso e qualche no in più agli altri. Ti allunga il guinzaglio, allenta la presa.
Mentre le certezze illusorie si stanno sgretolando, è in atto un processo: quel senso di impotenza, come se fossimo impigliati in una ragnatela senza scampo, ci svela che siamo noi i ragni che l’hanno tessuta.
E la vita continua a bussare alla porta, nonostante siamo ad un quarto d’ora dall’esaurimento nervoso. Troppi mal di testa, mal di pancia, antibiotici, batteri e attacchi kamikaze verso sé stessi.  Troppi per questo piccolo strato di nebbia di un centimetro.
Il muro invisibile
Vola giù con un soffio.
Cade,
per la voglia di espanderti,
e di essere vivo.

sabato 22 giugno 2013

Luigi

Dopo un paio di anni da quando mi è stato regalato, alcune sere or sono  mi vedo improvvisamente comparire davanti agli occhi prima di prendere sonno, la copertina di un libro, “Opere morali” di Seneca. Me le ha regalate sulla spiaggia di Lavagna, in Liguria, un ex rappresentante in pensione di nome Luigi. Se è ancora vivo, cosa che gli auguro con tutto il cuore, dovrebbe avere 77 anni. Luigi era, anzi Luigi è di Milano, ed ha appartenuto ad un gruppo di anziani a cui ho fatto animazione in un albergo. Era l’estate di 2 anni fa ed io nel giro di una settimana, in seguito ad una serie di eventi che non sto a riportare, mi sono ritrovato in spiaggia a far fare ginnastica dolce, acqua gym, ad organizzare tornei di bocce, briscola e burraco ed a mettere musica da ballo liscio la sera. Belli. Com'erano belli quei 50 cuccioloni. Luigi era uno di questi. Vedovo, mi parlava spesso del suo unico figlio; era ancora un bell’uomo, Luigi: alto, magro, distinto, con tutti i capelli bianchi e leggermente mossi. Ricordo che non sempre si faceva tirare in mezzo alle attività, però aveva un modo tutto suo di partecipare e di dare comunque qualcosa. Amava commentare con me i fatti di attualità, seduto sotto l’ombrellone mi chiamava per commentare la prima pagina del Fatto Quotidiano e ricordo che gli piaceva molto sentirmi dire la mia un po’ su tutto. Beh, l’ultimo giorno prima di partire, mi si è presentato con Seneca incartato per donarmelo. C’era anche un bigliettino dentro che recitava: “Grazie Massimo per la tua amicizia.” Si era sbagliato per tutta la vacanza, mi aveva sempre chiamato cosi, Massimo. Per lui ero Massimo, non Mauro. Chi se ne frega, mi poteva chiamare anche Giorgio per quanto mi riguardava. Grazie Luigi! Grazie mille. Sono due giorni che ho preso questo libro in mano ora e non riesco a separarmene. Sono armato di una matita mentre lo leggo, cosa che riserbo solo ai libri che mi educano. Porca miseria che libro. Lo sapevo, lo sapevo. Sempre lì mi tocca di finire, nei libri. Quanti sassolini lasciati da chi ha già percorso il sentiero della vita. Per i posteri si scrive, per loro. I contemporanei non ti capiscono, non ti possono capire. Sono dentro il frullatore e tu per scrivere ti sei arrampicato sulle pareti, hai svitato il tappo e ti sei gettato giù dall’altra parte. Il tempo di dire ahia che botta, di asciugarti un pò al sole, che cominci a scrivere, a riportare cosa vedi da fuori il frullatore. Come puoi essere capito o visto da chi va a migliaia di giri, mentre tu sei fuori che lo guardi? Chi si accorge di te e già tanto se non ti fa fuori. Chi sei tu? Perché sei saltato fuori dal frullatore? Quante storie. Non ti piacciono quelli che fanno i trenini alle feste? Non ti divertono i trenini? Cosa pensi, che alla gente piacciano? Se lo fanno, dovranno pur divertirsi, penso. O no? Ma che ti frega di fare sempre domande, fatto una volta, ti togli il pensiero, fa come gli altri, no? No. Luigi, Luigi caro, quanto amore c’è stato da parte tua in quelle chiacchere. Quanta solitudine. Anche tu non amavi il frullatore. Non te ne fregava un cazzo di scannarti con gli altri per giocare a bocce. Te ne stavi sulla sdraio a contemplare il mare. In vacanza con il Comune di Milano. Gruppo anziani, tutti a Lavagna in albergo a tre stelle. La moglie che non c’è più, un figlio dentro la sua vita. La solitudine dignitosa, non ti ho mai sentito lamentare o mettere su la faccia del cane bastonato. Ma che ne sanno i pivelli come me? Ti rompevo tutti i giorni per farti giocare, partecipare, divertire. Poi però mi sono fermato, mi sono messo ad ascoltarti. Tu come altri, mi avete aperto il cuore, raccontato la vostra vita. Grazie. Anche da parte di Seneca. Amava scrivere a Lucillo riportandogli un pensiero, una frase del giorno che lo colpiva e che sceglieva per rifletterci su. Te ne lascio una anche io amico mio, anche se non sono stoico, nè epicureo: “Se vuoi conoscere la vita, inginocchiati ai piedi di una persona anziana, o se sei scomodo, anche seduto su una sdraio sotto l’ombrellone, va bene lo stesso. Ti basterà donargli un poco di attenzione, ma bada che sia sincera, che ti ripagherà di un amore più grande del tuo, poiché ci ha a che fare da molto più tempo di te, e sa come si tratta”.

giovedì 6 giugno 2013

Tizzoni di carne

Oblio,
orrore,
silenzio di un’anima
ferita a morte.
Qualche scintilla,
qua e là,
null’altro.
Ma che miracolo
nel sonno
che tutto avvolge.
Pochi superstiti
ardono,
invisibili
agli altri uomini
da sempre intenti,
ostinati
a strapparsi gli occhi,
per non vedere.
Occhi,
che si rigenerano ogni notte,
al lume
di quell’incerte fiammelle,
come viscere
di Prometeo.


lunedì 3 giugno 2013

Endgame Before

Nel cuore
di chi odora la vita,
un fiume
apre il passo.
Scuote ossa,
muove dita.
Corre il risveglio,
disegnando
al suo passaggio
un letto caldo,
lento massaggio.
L’uomo
che si arrende,
prima del finale di partita,
ama.
Ed è salvo.

giovedì 23 maggio 2013

Senza titolo

O Venere immortale,
tu che ritorni
dalla notte dei tempi,
tu che sempre rinuovi
la verità del Bello,
fiorisci rigogliosa!
Tu sola,
vinci la furia di Marte,
e ruggisce
nel petto tuo di fanciulla
invincibile Amore.
Eppur sei sì leggera,
come un “soffione”
che accarezza
criniera di leone.
Tua è la Forza
che gentile si fa strada
e siede
sul Trono.

martedì 9 aprile 2013

Qualcuno ci guarda


“Certo che gli essere umani sono proprio stupidi, mamma.”
“Ma che dici, tesoro? Ti sembra il momento di parlare di queste cose? Dormi, amore mio”, disse mamma lombrico al suo piccolo dopo avergli infilato il pigiamino profumato.
“Sono gli unici a potersi permettere un’anima tutta per loro, e trascorrono  la maggior parte del tempo a lamentarsi e ad essere infelici. Sono degli sciocchi!”, continuò il piccolo.
“Ma che dici? Dove hai sentito queste cose?”
“L’ho sentito dire da papà, l’altra domenica alla riunione nel bosco! Anche Petrus, il grillo, ha smesso di saltare per ascoltare.”
“Ah sì? E che cos’altro ha detto papà?” proseguì incuriosita.
“Ha detto che è tremendamente ingiusto che gli uomini abbiano una tale fortuna, perché non sanno che farsene. Tutti gli animali al massimo si possono permettere un’unica anima per specie e la devono condividere a migliaia o centinaia di migliaia, eppure non si lamenta nessuno!”
La madre sorrise, era così orgogliosa di aver sposato un lombrico così. Spesso non capiva cosa dicesse, ma sentirlo parlare l’aveva sempre affascinata terribilmente. E le venne in mente la sera in cui si erano conosciuti: lui, con la scusa di andare di fretta, l’aveva sorpassata sfiorandola, salvo fermarsi all’improvviso, tanto che lei poveretta ci aveva sbattuto contro. “Mi scusi signorina se ho frenato così bruscamente, devo aver perduto qualcosa.” esordì lui. “Perduto cosa?” le aveva risposto indispettita. “Temo tutto il tempo che non ho trascorso con lei prima di oggi….” Disse sospirando. Già, era cominciata proprio così.
“E poi, cosa ha detto ancora tuo padre?” ritornò al suo piccolo, divertita.
“Ha detto che mentre tutti, proprio tutti, hanno un periodo per fare i piccoli, per dormire per mesi o per spostarsi in certi posti tutti insieme e in un momento preciso, loro, gli uomini no! Possono fare i cuccioli quando vogliono, dormono quando gli pare, vanno dove vogliono e fanno quel ci piace! E con tutto ciò, sono infelici!” disse emulando il padre, senza capire una sola parola di quello che aveva ripetuto con tanta solennità.
Mamma lombrico scosse lentamente la testa e sorrise al piccolo Liam:” Ora dormi campione! Che se no domani strisci dal sonno!”
“Ma mamma noi già strisciamo..”
"Dormi!" Era proprio tutto suo padre.

domenica 31 marzo 2013

Vento in poppa

Vento che soffia via tutto. Spazza col sole, con la pioggia. Picchia la pelle, gira gli ombrelli, duella con le sciarpe per attaccarti alla giugulare. Dove bisogna mirare. Questa volta, mostro il collo. Spazza il pomo o vento, porta via tutte le urla soffocate. Restituiscile al cielo, qui oramai ostruiscono il fiume. Sono morte insieme alle tonsille, un giorno adulto. Adulterio, tradimento di chi  ha voltato le spalle violando un patto sacro. Quanta straripante innocenza in quei piccoli occhi per comprendere lo scempio: via a sorridere sulle nuvole, mentre qualcuno ha nascosto sotto un’ugola assettata di vita, il fuoco di un dolore grande da sopportare. Come polvere sotto un tappeto. Vieni vento, rinfresca. Divampa, che bruci tutto, si mondi, purifica. Carezza ruvida, ti apro i polmoni e inspiro profondamente. Vieni o vita, spalancami da dentro, entra in me fino all’osso sacro. Accendi il serpente, che morda il culo allo struzzo con la testa sotto la sabbia. Digli di guardare, che può guardare senza scappare, senza abbassare lo sguardo. Le sue sono piume di giustizia, tutte uguali. Da farsi aria, come un antico faraone. Mira alla gola e libera un canto, una nenia di  babbuino che sorseggiando latte cosmico aggancia un destino. 

martedì 26 febbraio 2013

Digestioni parallele


Il polpo con le patate. Un mollusco ed un tubero si incontrano. Uno vive sott'acqua, l’altro sottoterra. Se non fosse per l’uomo, mai verrebbero a contatto. Sfortunatamente, l’incontro è del tutto inconsapevole e i due si ritrovano a condividere il destino di essere cibo per la vita, continuando ad ignorare la reciproca esistenza. Un po’ come succede a noi uomini, quando facciamo il percorso contrario. Sottoterra ci finiamo da morti e grazie all'incontro con vermi e batteri, veniamo di nuovo immessi nel ciclo della vita.
Anche da vivi, quando dormiamo, succede di diventare cibo. Angeli o demoni sono ghiotti di noi. Se non fosse per loro, mai incontreremmo i sogni e gli incubi che si muovono nelle gambe, nei cuori e nelle teste di chi li ha sognati. E così anche sogni,  incubi e uomini condividono lo stesso destino.
È buffo! C’è sempre qualcuno o qualcosa che si nutre di qualcun’altro. Il polpo non lo sa, ma cammina in superficie nei passi di chi se n'è nutrito. Come l’uomo non lo sa, ma è un piatto succulento e vive in altri regni. Dove per fare sogni meravigliosi serve un’anima che faccia un po’ di luce, affinché altra Luce la riconosca e scenda su di essa a banchettare.


domenica 6 gennaio 2013

Viaggio sul divano


Mi sono posato sul divano per un piccolo tempo, come i panni asciutti quando vengono ritirati dallo stendino e ci transitano prima di finire nei cassetti. Volevo riposare, pensare, perdermi per un attimo senza dovermi preoccupare anche del mucchietto di carne e ossa che mi porto a spasso e la sua ansia. Io e il divano abbiamo fatto un viaggio. C’era anche quello strofinaccio sul bracciolo e la coperta rossa in pile a proteggermi i piedi allungati sulla sedia. Fra le mani un libro. Bruciavo di collera e distruzione. Mi odiavo. Ero sprofondato nel girone infernale del “non”. Non sono capace di amare, non sono un figlio meritevole di amore, non saprò mai trattare con un figlio, non voglio un figlio, non sono un borghese, non è la persona giusta quella accanto a me, non c’è una persona giusta, non sono in grado di combinare nulla di buono, non sono affidabile, non sono buono, non capace, non ho talenti, non amo le feste, non amo la gente, non amo me stesso, non amo nessuno. Non ha senso quello che ho cercato di fare finora, non ho speranza, non merito nulla, non valgo nulla.
Niente male. D’un tratto però, il sedicente libro mi centra la brocca con un fulmine e per farmi scoprire che in verità nessuno mi ha fatto niente. Possibile? Uno passa il tempo a rovinarsi l’esistenza, a soffrire in santa pace e a sentirsi vittima incompresa e praticamente anche il peggiore degli stronzi, in realtà non fa altro che mostrarmi, darmi conferma, di quali sono le cose che credo vere di me stesso. Di non avere o essere questo o quest’altro per il semplice motivo che in fondo sono convinto di non meritare di avere o di essere questo o quest’altro, anche se mi racconto il contrario. Ma per favore, questo è pieno delirio New Age.
Accuso il colpo. Questa tesi mi dà sui nervi e mi difendo con i denti: tutte cazzate. Sti libri sono tutti uguali. Tanto cosa avevano detto i Maya? La fine del mondo è già arrivata da qualche giorno, e cosa è successo? Un bel niente, ecco cosa! Magari fosse successo, in realtà il mondo è il solito schifo di sempre, pieno di gente cattiva e se ne va in malora. Che ci vada in malora, allora. Poi c’è la crisi, tanta crisi. Crisi. Mi incanto così, come un disco rotto, con gli angoli della bocca amareggiati e lo sguardo perso nel vuoto.
Quello che speravo, approfittando dell’attimo si accende l’altra metà del cervello, mi allaccio la cintura e finalmente il divano decolla. La partenza è turbolenta.
Danza la vita fra le mie dita, buffone, ciarlatano, venditore di sogni. Svelatore di illusioni, sollevatore di peso, illusioni di un vilipeso. Amico superstite di un angelo umano a spasso per il pianeta, riempie le orecchie di giovanotti ballanti. Quel che mi occorre è lo spazio nel tempo, due coordinate da mettere su un grafico cartesiano, saltarci su e remare con la x e con la y salendo in mezzo alle stelle, facendo un giro intorno alla luna per tirarle un sassolino e vedere se si increspano i contorni. Voglio sapere di rivolgermi alla Luna per davvero, non al suo riflesso argenteo in qualche laghetto. Su a pescare braccia di burattini che si muovono. Un piccolo principe che gioca le storie degli uomini con la sua amata rosa al riparo vicino a lui. E la Maddalena in altalena, su e giù per l’universo, fino a sciogliersi nel palato sotto forma di biscotto.
E’ fatta, sono in orbita. 
Chiudo gli occhi e mi ritrovo in cortile dalla nonna a tirarmi su dopo essere scivolato con la ruota della bicicletta su quella ghiaia maledetta. Mi vedo andare in bici dal balcone del secondo piano. In piedi, arrivo appena alla ringhiera. Sotto ci sono sempre io in bici, su il cielo invece è di azzurro e panna montata di nuvole. Mi sdraio sulle piastrelle levigate rosso mattone del balcone e guardo al contrario. Con la testa e il naso per aria mi infilo con la nuca fino al bordo dove finisce il balcone, mentre con le manine mi aggrappo con tutte le forze alla ringhiera per tenermi. Il gioco è durare più a lungo possibile senza farmi vincere dalla paura del vuoto che sento sotto la mia testa. Se cado mi ammazzo. Se guardo sotto mi paralizzo e fuggo atterrito verso la finestra che mi riporta in cucina. Se guardo in alto invece, perdo il senso dell’orientamento. Vertigini al contrario. Eppure quanto sono lenti e magnifici quegli attimi dilatati. Senza avvertire lo spazio, il tempo si espandeva fino a diventare immobile. Quanto duravano quei giochi a testa all’insù e le mani strette per non perdere del tutto il contatto? Sembrava non passare mai. Da piccolo, ero in grado di fermarlo, il tempo. Oh, oh.
Ho guardato di sotto, il viaggio è finito, sono di nuovo in salotto.
Quanto è durato? Non lo so, ma per un momento, ci sono riuscito. Mi sono dimenticato di me sul divano, aggrappato al libro come alla ringhiera, per andare in un mondo di figure geometriche a giocare con le nuvole di panna montata. Ho preso un cono di vecchi e legittimi capricci inascoltati da guarire e sono tornato.